A Scuola di Biodanza in pandemia di Sergio Di Giorgi

 

A scuola di biodanza, nel mezzo di una pandemia

Riflessioni ed emozioni di un allievo della Scuolatoro di Milano.

Rispondendo a un invito di Armando Montanari

 “La grande novità e genialità della proposta di Biodanza sta proprio nel rifiuto di accettare una sola voce, ma nel rivendicare, di fronte alla complessità del vivente,un approccio multidisciplinare e corale. Ogni voce diversa porta un contributo essenziale alla comprensione complessiva”.

Questa e altre importanti riflessioni di Armando Montanari ci arrivano puntuali nel mezzo della cosidetta ‘seconda ondata’ della pandemia da Covid19. Una fase in cui, come è stato detto, si sommano gli effetti di tre distinte pandemie (forse non le sole, e di sicuro non solo nel nostro Paese): sanitaria, economica, psicologica. A rendere in Italia il quadro psicologico molto più cupo e fragile rispetto alla ‘prima ondata’ - dove pure si era riusciti a fronteggiare con determinazione e fiducia qualcosa di tanto drammatico quanto inaspettato - è un senso di impotenza e frustrazione dinanzi al ripetersi, su uno scenario più vasto, dell’esperienza già vissuta; in particolare, pesa la triste constatazione che le istituzioni preposte, ai vari livelli, nazionale e locale, non abbiano programmato per tempo e in maniera coordinata le contromisure adeguate e che molti cittadini abbiano appreso ben poco da quella prima esperienza (e non consola più di tanto sapere che più o meno tutte le nazioni vivono gli stessi problemi). Inoltre, si assiste sconcertati alla riproposizione mediatica, da un lato della quotidiana litania dei numeri, spesso assai poco significativi, dell’epidemia, dall’altro delle fuorvianti quanto martellanti metafore belliche. Lo stato di confusione e la rabbia che cova sottotraccia è alimentato poi dalla perdurante smania di protagonismo mediatico e dal tasso elevato di litigiosità e di strumentalizzazione politica che vede protagonisti scienziati, medici, esperti a vario titolo, politici a tutti i livelli, social media manager, influencer o presunti tali…

Raccolgo dunque con piacere (scusandomi in anticipo per la lunghezza di queste mie note) l’invito di Armando a proseguire la riflessione sui cambiamenti, a livello sociale e individuale, che la pandemia da Covid-19 sta determinando nelle nostre vite, in tutti gli ambiti e le pratiche, con particolare riferimento a quello della biodanza (sul quale, in effetti, l’impatto è oltremodo significativo). Da allievo della Scuola Rolando Toro di Milano ho avuto modo di incontrare per la prima volta Armando a uno stage da lui condotto nel novembre di due anni fa. Si era instaurata una sorta di immediata complicità intellettuale a proposito di quell’ ’elogio del dubbio’ di cui ci aveva parlato. In una pausa dei lavori, mi aveva segnalato un breve articolo del sociologo Carlo Bordoni pubblicato su ‘La lettura’ (inserto del Corriere, 23 settembre 2018) dal titolo ‘La presunzione rende poveri’ che trattava appunto della scomparsa del dubbio, pur in questa ‘era dell’incertezza’.

Proprio sul tema dell’incertezza, che corre e si diffonde oggi insieme al virus, Armando Montanari - che ha conosciuto e lavorato per tanti anni con Rolando Toro - ha parlato nell’ incontro internazionale ‘Sfide contemporanee’, promosso da Biodanza Rolando Toro - BRT, Scuolatoro UNIPIB e AIPOB - Associazione Internazionale Professionale Operatori di Biodanza, svoltosi lo scorso aprile in cui è sorta l'idea di ‘LIB-Laboratorio di Ricerca Biocentrica’. La conferenza Sfide Contemporanee, presentata da Rodrigo e Viviana Luz Toro all’inizio della pandemia, ha riunito tanti didatti ed operatori del mondo della biodanza sparsi nel mondo, affidando a dieci relatori la riflessione su dieci temi-chiave del mondo d’oggi, riletti inevitabilmente alla luce della fase storica. In quella occasione Montanari aveva ricordato che è proprio la confusione il vero problema in una situazione di incertezza. Eppure, per lui, tanto l’incertezza quanto il dubbio possono costituire efficaci antidoti contro le ‘facili certezze’ con cui cerchiamo ostinatamente quella semplificazione (cosa ben diversa dalla semplicità, come si sa) della complessità del mondo e di noi esseri umani che lo abitiamo. A questa semplificazione, che spesso confina con la manipolazione dei dati di realtà, un aiuto perverso è offerto anche dagli algoritmi dei social media, ben programmati per dividere il mondo in due parti contrapposte - bianco o nero senza sfumature - su ogni e qualsivoglia argomento, anche i più eticamente delicati, come sanno bene certi leaders politici che governano il mondo e gli uomini a colpi di tweet.

E’ vero, d’altra parte, che per un sistema sociale, come pure per un singolo individuo o gruppo, l’incertezza, al pari dal dubbio, in circostanze emergenziali può diventare un lusso assai costoso in termini di sicurezza sanitaria o economica (ne siamo stati e ne siamo testimoni anche in Italia in questi mesi e settimane). L’ Uncertainty avoidance (evitare, più o meno, l’incertezza) è per i ‘Cultural Studies’ una delle dimensioni fondamentali su cui si differenziano le culture. Dove il rapporto con l’incertezza vuol dire il nostro rapporto con ciò che è imprevisto, inedito, non conosciuto, ma anche straniero, ‘strano’, non abituale, nuovo: dunque con l’innovazione e con la diversità, a tutti i livelli e in tutti gli ambiti. E, di conseguenza, con ciò che chiamiamo cambiamento. Quello vero, che diventa anche vero apprendimento.

Ma dunque, viste le attuali difficili circostanze, dovremmo bandire ogni incertezza e dubbio dal nostro bagaglio esistenziale di individui? E cosa accade in situazioni eccezionali se, sempre come individui, siamo impegnati, da poco o da molto tempo che sia, in percorsi di ricerca e integrazione personale e sociale, come di sicuro è anche il percorso della biodanza?

Secondo Montanari, è del tutto “...legittimo chiederci, come tutti siamo chiamati a fare di questi tempi, sino a che punto possiamo cambiare la Biodanza, così come la nostra vita, senza tradire né l’una, né l’altra, per adattarci alle circostanze particolari che stiamo vivendo e che Covid-19 ci impone” (corsivo mio).   Proprio perché la biodanza è nel mondo, come la pandemia, e non è nè può essere un’isola felice, o una parentesi settimanale tra ‘giorni insignificanti’, Montanari aggiunge: “...sotto molti aspetti, la pandemia non ha fatto che accelerare e rendere più dirompenti numerosi cambiamenti e linee di crisi preesistenti, e che in ogni caso sarebbe stato opportuno considerare, per prendercene carico”.

La domanda, proveniente da tante diverse voci, anche solo interiori, risuona così più chiaramente e direttamente formulata: “Come ci poniamo noi personalmente e noi biodanzanti, di fronte ai grandi cambiamenti di cui siamo testimoni e che siamo chiamati a vivere?”

 

Esperienze di un allievo. Primavera 2020.

Voglio qui raccontare di alcuni pensieri ed emozioni legate al mio percorso di praticante e allievo della scuola di Biodanza Rolando Toro di Milano, a seguito dell’emergere dell’epidemia.

Allo scoppiare della prima ondata è apparso subito chiaro come le norme di distanziamento sociale e i divieti di riunione e ‘assembramento’ (con le conseguenti chiusure) di luoghi tradizionalmente deputati alla socialità e agli incontri umani avrebbero imposto lo stop della pratica della biodanza così come da sempre vissuta (o per meglio dire vivenciata): in gruppo, in presenza, ricercando il contatto e l’abbraccio, anche e soprattutto fisico. E che sul calore di questi contatti sarebbe scesa l’ombra di una sospensione indefinita, o di una chiusura su noi stessi, magari mitigata dell’’autocontatto’ o, al più, la freddezza della comunicazione ‘virtuale’.

Avremmo invece scoperto, per me come per tanti altri anche in maniera sorprendente, che proprio la comunicazione a distanza favorita dalle tecnologie (mediante piattaforme ad hoc come Zoom, Skype, ecc.) riusciva, molto più che in passato - quasi raccogliendo e amplificando le istanze interiori scaturite dalla inedita situazione - ad assorbire e rimettere in circolo, oltre a parole e ragionamenti, tantissime emozioni, pur o proprio perché richiedeva maggiore attenzione, concentrazione, e anche fatica. Realizzando una maggiore densità degli scambi relazionali.

Allo stesso modo, abbiamo scoperto che poteva rappresentare un vincolo affettivo e integrativo all’interno di un gruppo pre-esistente di biodanza (questo, s’intende, se, come nel caso del nostro gruppo settimanale, il gruppo era già affiatato e integrato).

Si trattava quindi di un processo generale che riguardava moltissime occasioni di incontro virtuale, a patto che fossero ben presenti e riconoscibili le componenti partecipative ed emozionali, in una dimensione possibilmente paritaria ed orizzontale (penso, sempre dalla mia esperienza personale di questi mesi, alle tante ‘matrici’ di condivisione dei sogni - il metodo del Social Dreaming elaborato dallo psicosocioanalista inglese Gordon Lawrence all’inizio degli anni ‘80 al Tavistock Institute - alle quali ho partecipato e che, in alcuni casi, ho contribuito a organizzare).

Avevamo quindi discusso con la nostra tutor, già alla metà di marzo, l’esigenza di continuare a mantenere l’appuntamento del mercoledì, riservato agli incontri settimanali del percorso di biodanza. Francesca Perreca ha dunque ‘inventato’ e condiviso con noi, e tutti insieme abbiamo sperimentato, un format via Zoom del tutto diverso, che ovviamente era altra cosa rispetto alla biodanza (il format, cui avevamo dato il nome di ‘Cuorlibrando’, prevedeva, sostanzialmente, la condivisione dei propri vissuti settimanali, rispetto alla pandemia e non solo, la discussione attorno ad alcune pagine scelte di testi, e qualche brano musicale da condividere in sincrono nell’ultima parte dell’incontro). Se certo l’esperienza non poteva essere assimilata alle vivencie (e nemmeno al relato di vivencia) delle sessioni di biodanza in presenza, l’integrazione che quegli incontri producevano si riverberava anche al di fuori del gruppo, nel nostro quotidiano e nel mondo esterno, familiare e lavorativo, cosa che è del resto l’obiettivo implicito ed esplicito del sistema Biodanza, e che appariva ancor più importante in momenti di oggettiva difficoltà e di potenziale ‘depressione collettiva’ come quelli con cui avevamo dovuto imparare a convivere.

Del resto, come presto sarebbe stato noto, tanti altri ‘esperimenti’ in quei mesi erano stati avviati da diversi tutor. Su questi e sulle loro implicazioni, in termini di benefici ma anche di possibili rischi, si sono concentrate le analisi dei gruppi di lavoro promosse dal LIB-Laboratorio di Ricerca Biocentrica’ che, in due distinte fasi, hanno lavorato (anche chiedendo il contributo, anonimo o meno, attraverso questionari o altre modalità, degli allievi dei gruppi settimanali o delle scuole di formazione, come anche nel mio caso). Gli esiti delle indagini sono stati restituiti in intensissimi - anche qui sul piano sia cognitivo che emozionale - incontri allargati in rete (e prossimamente, a quanto so, lo saranno anche grazie a una specifica pubblicazione).

(continua) Autunno 2020. Se le neuroscienze ci vengono in aiuto…

Biodanza è un percorso di scoperta, di noi stessi in primo luogo. Dunque di cambiamento. Che spesso è anche ‘adattamento alle nuove circostanze’. Scoprire spesso vuol dire andare in profondità, più lontano dalla superficie, delle cose e delle emozioni.

Sempre riflettendo sul cambiamento, a livello personale, mi piace riferire qua anche della mia recente esperienza nella Scuola, relativa in particolare allo stage su ‘Biodanza e Neuroscienze’, condotto da Annalisa Risoli, a cui ho avuto la fortuna - anche per la ‘puntualità’ dell’esperienza rispetto al momento che viviamo (un esempio in fondo di ‘sincronicità’…) - di partecipare il 17 e 18 ottobre 2020. Considerandola una sorta di prosecuzione dell’esperienza, farò anche riferimento alla conferenza del ciclo del progetto AIPOB tenuta sempre dalla Dr.ssa Risoli sul medesimo tema il 4 novembre 2020.

Nella locandina dell’ incontro in rete di novembre si dice chiaramente che “grazie ai neuroni specchio possiamo comunicare in modo molto profondo con l’altro anche a distanza, senza che sia necessario nessun contatto fisico”.  

Questa frase che può sembrare sin troppo assertiva a chi, come me, non sia esperto di neuroscienze è stata comunque tradotta (‘incarnata’) nella mia esperienza concreta dello stage di ottobre cui facevo riferimento.

Con il mio gruppo (gli allievi del XIII ciclo della Scuola), e a differenza dello stage di ripresa di metà settembre (dove si era ancora in una dimensione psicologica di maggiore ‘rilassatezza’ rispetto alla situazione sanitaria, al punto che gli abbracci, dopo mesi in cui ci si era visti per lo più solo a distanza, non erano certo mancati…!) ci siamo ritrovati a metà ottobre in una dimensione psicologica di maggiore preoccupazione e tensione emotiva, in linea con il diverso scenario sanitario del Paese, e della Lombardia in particolare. La didatta, come interpretando questo nostro stato d’animo collettivo (anche se ovviamente ciascuno mantiene le proprie idee e sensibilità rispetto a quanto accade in questo momento) all’inizio dello stage, e dopo essersi presentata, ha opportunamente, a mio parere, creato una cornice di consapevolezza comune che da un lato riconosceva e valorizzava il coraggio (‘nel senso proprio di ‘agire il cuore’) che aveva portato noi, lei stessa, la Scuola, a organizzare lo stage, e dall’altro sottolineava la necessità di una consapevolezza della fase, dove il rispetto delle regole non era tanto un gesto formale, ma la volontà di riconoscere e rispettare le libertà e le sensibilità, differenti, di ciascuno.

Ed eccoci (purtroppo un paio di compagni erano assenti) nel qui e ora delle vivencie, a praticare la biodanza in presenza tenendo sempre indossata una mascherina, più o meno ‘carina’ o funzionale, ma che ovviamente oscura quasi del tutto la mimica facciale; senza poter ricorrere all’abbraccio fisico e senza la presenza delle vivencie di contatto, a cominciare dalle consuete ronde dove ci si tiene per mano (ma, come era già accaduto nello stage di settembre, i didatti della Scuola, con la guida di Eliane e Viviana, avevano studiato, creativamente, per ‘adattarle’ senza però ‘tradirle’ tante vivencie praticabili e funzionali), senza poter condividere il cibo nelle pause pranzo degli stages (per non parlare delle regole logistiche e burocratiche da rispettare sin dall’ingresso nei locali della Scuola).

Ebbene, tutto questo suscitava sentimenti ed emozioni contrastanti, spesso anche assai negativi, che, nel relato di fine stage, si sarebbero manifestati con parole precise, che indicavano spesso mancanza o nostalgia, ma che altre volte, specie riguardo alla impossibilità del contatto fisico, parlavano più crudamente di menomazione o di amputazione.
Allo stesso tempo, eravamo stati chiamati a vivenciare e a mettere in moto dei meccanismi nuovi, che proprio le neuroscienze - iniziavamo a capirlo non solo razionalmente - ci indicavano, nella continua evoluzione, tra l’altro, delle scoperte scientifiche in materia.

Il tema della mimica facciale, più volte risuonato durante lo stage, nelle parole della didatta e poi nel nostro relato mi sembra una importante ‘cartina di tornasole’. La Risoli non negava certo come la mascherina limitasse, e tanto, l’effetto ‘specchio’ sull’espressività dell’altro (in effetti, questa ci manca molto anche rispetto a persone che vediamo per la prima volta, ma anche ad amici e conoscenti che quasi, a prima vista, ci sembra di ‘non riconoscere’…). Però, aveva aggiunto, rappresentava anche una opportunità: quella di ‘approfondire la relazione con l’altro attraverso lo sguardo’. Lo sguardo, almeno così è stato per me nelle vivencie, diventava il ‘focus’ magnetico e incandescente della relazione, soprattutto nelle vivencie di coppia (ovviamente ben distanziate), ma anche in quelle che interessavano in sincrono tutto il gruppo, come nelle altrettanto potenti ‘ronde di sguardi’ (anche ‘sinuosi’). E’ così che ho sperimentato con grande emozione, credo di poter dire ancora più forte che in analoghe vivencie degli stage precedenti, l’emozione della ‘danza di sguardi a due’ o della ‘danza per l’altro’, dove cio’ che arrivava dello sguardo aveva una sua potenza assoluta, ma direi anche pura, nel senso di non ‘distratta’ o ‘disturbata’ proprio dalla mimica facciale. Sappiamo infatti che quella mimica facciale puo’ essere a volte anche una nostra ‘maschera’ difensiva, dove magari sovrapponiamo un sorriso stereotipato, che può risultare incongruo con il nostro movimento corporeo generale e, ancor più, proprio con il nostro sguardo. Lo sguardo che, a mio avviso… non mente mai! Concentrarci sullo sguardo dell’altro, sostenerlo e donarlo all’altro (cosa che sappiamo non facile per tanti di noi, me compreso) è allora come impegnarci a leggere non il pensiero, ma l’emozione dell’altro. Non certo per interpretarla (magari proiettandola sulle nostre proprie emozioni) o giudicarla (come spesso avviene infatti col pensiero altrui), ma per accoglierla, accettarla, custodirla, anche nel suo inesprimibile e inaccessibile mistero o segreto (di un dolore antico o di una momentanea felicità).

Come ci ha spiegato Annalisa Risoli, le ultime scoperte scientifiche parlano più che di neuroni di ‘proprietà specchio’ (a sottolineare l’importanza dei meccanismi e delle finalità sociali e relazionali degli esseri umani e della loro fisiologia). Ma hanno pure individuato una nuova categoria di neuroni specchio, quella per le ‘forme vitali’. Se per il suo scopritore (Daniel N. Stern) la ‘forma vitale’ si può definire come ‘il senso di vitalità che permea la nostra esperienza’, acquistano maggiore importanza la ‘direzionalità e l’intenzionalità’ del movimento, il suo dinamismo intrinseco e simbolico: non tanto cosa facciamo ma il come e il perchè del nostro muoverci del mondo, forse, si potrebbe dire, la nostra postura nella vita, che ha molto a che vedere con l’intensità (o, con il suo contrario, la ‘gelatinosità’) della nostra presenza nel mondo, di cui parlava e soprattutto testimoniava, Rolando Toro (come da un estratto video che abbiamo potuto ammirare). Grazie alle ‘forme vitali’ riusciamo ad ‘adattare il nostro comportamento alla situazione’, ma anche ‘ai comportamenti dell’altro’, ‘creiamo la sintonizzazione affettiva con l’altro’ e una ‘circolarità relazionale’: passiamo da una ‘comprensione basilare’ dell’altro a una ‘comprensione piena’, che include anche le ‘ragioni motivanti e gli stati mentali (intenzioni,credenze, desideri). (le frasi e i termini tra virgolette fanno riferimento alla dispensa dello stage di Annalisa Risoli per il XIII ciclo e a sue affermazioni da me trascritte in occasione dell'incontro on line del 4.11.20)

Tutto questo, scendendo dal piano della teoria alla pratica, credo riguardi anche l’altra spinosa questione della mancanza dell’abbraccio, pieno, fisico, in cui ci ‘sciogliamo’ nelle braccia dell’altro, come a volte ci piace dire. Nella vivencia dell’’andare incontro all’altro’ ci arrestiamo alla distanza di sicurezza, restando però, secondo la ‘consegna’, con le braccia aperte nella posizione dell’accoglienza. Anche qua, cerchiamo allora di ‘leggere’ negli occhi dell’altro che ci attende o che arriva a noi. Provando magari a immaginare un sorriso o una espressione dietro la maschera. L’emozione di questa vivencia è sempre molto forte, nella mia esperienza, e davvero inesprimibile a parole. E anche senza l’abbraccio finale... Del resto, l’abbraccio non è una cosa meccanica o scontata, ma è proprio il punto finale di una relazione, di uno scambio, ma non ne costituisce elemento indispensabile sul piano affettivo. Abbiamo parlato infatti di ‘stereotipia dell’abbraccio’ con Annalisa (e questo puo’ avere un parallelismo con una mimica facciale che sia ‘stereotipata’). E anche Viviana Toro nel primo stage della Scuola ricordo che ci aveva esortato a evitare quella che lei aveva chiamato la ‘retorica dell’abbraccio’ (contemplando quindi anche il sacrosanto diritto di non abbracciare nessuno se, in un dato momento, non si ha voglia di abbracciare...).

Una semina per il futuro

Se la biodanza, al tempo della pandemia, ci chiama ad essere resilienti, ma anche creativi, i nostri neuroni specchio, o almeno quelli più ‘evoluti’ tra loro, più che la semplice imitazione cercano la verità e la sincerità del nostro gesto, la sua coerenza anche rispetto alle nostre strutture e capacità fisiche. Cercano, come del resto il fine ultimo del nostro percorso, la nostra unica, irripetibile, essenza.

Credo anche che questa maggiore consapevolezza e questo affinamento delle nostre capacità di ascolto e di attenzione ce le ritroveremo come un dono, magari inaspettato, di questo tempo complicato, quando la pandemia sarà passata. Forse non saremo migliori, ma più integri e più veri. Questa è forse oggi la sfida per ognuno di noi.

Sappiamo anche, e oggi più che mai, che il cambiamento passa sempre dalle coscienze individuali, ma che per avere effetti collettivi (quindi anche politici) deve essere condiviso e cementato nelle pratiche sociali. Siamo al tempo stesso consapevoli che questo passaggio è reso oggi molto più difficile dal fatto che il movimento stesso del singolo (ancor prima che il contatto relazionale tra le persone, specie se ‘non congiunte’...) è come mai prima d’ora controllato e limitato. Constatiamo come lo stesso ‘patto civile’tra le diverse generazioni è minacciato, e che è in atto uno scontro molto forte e gravido di conseguenze tra due beni, anche sul piano giuridico, supremi: la tutela della salute pubblica e quella della libertà, sia individuale che collettiva. La sfida – difficilissima – per chi governa in tali circostanze straordinarie (in cui l’‘emergenza’ come la Storia insegna, rischia di diventare facilmente prassi ordinaria) è cercare di conciliare al massimo delle possibilità queste due istanze troppo spesso in conflitto tra loro sul piano della realtà. Anche la Biodanza, e ciascuno di noi, può offrire un contributo a vincere questa sfida, che ci riguarda tutti, “nel rivendicare”, riprendendo le parole di Armando Montanari, di fronte alla complessità del vivente, un approccio multidisciplinare e corale”.

 

Bio: Sergio Di Giorgi pratica Biodanza da alcuni anni con Francesca Perreca come tutor e frequenta, dall’ottobre 2018, il XIII ciclo della Scuola Modello di Formazione Rolando Toro SRT di Milano, Scuolaotoro UNIPIB. Grazie al percorso di vita della biodanza e ad altri percorsi personali (come imparare le danze della tradizione del balfolk) cerca di scoprire l'armonia interiore e di connettere mente e cuore. Appassionato di cinema sin da giovane, è giornalista pubblicista e critico cinematografico. Negli ultimi anni si è interessato al rapporto tra il cinema e il metodo psicosociale del Social Dreaming.